di Francesca Ghezzani
Alessandra Pagani è in libreria dal 22 novembre scorso con il romanzo “Resta solo la tua voce”, pubblicato da Morellini editore per la Collana Varianti diretta da Sara Rattaro e Mauro Morellini.
La storia, ispirata a un fatto di cronaca e a un’esperienza personale dell’autrice, si svolge nel 1992 in un paesino del Nord Italia. La protagonista, Giulia, assassinata dal suo partner violento, narra la propria vicenda post-mortem. Attraverso i suoi occhi e quelli della sorella gemella Diana, il romanzo esplora dinamiche familiari complesse, la cultura patriarcale soffocante e le difficoltà delle donne nel liberarsi da situazioni di oppressione.
La scelta della narrazione in prima persona di una vittima è molto particolare. Perché hai deciso di adottare questo punto di vista?
“Quando raccontiamo un femminicidio parliamo, e a volte sparliamo, della vittima e parliamo del suo partner. La narrazione della violenza di genere sui mezzi di comunicazione, i giornali, i social, tv, spesso è arrabbiata, morbosa, insinuante, pettegola. Volevo riequilibrare questa narrazione portando il punto di vista della vittima: il libro è scritto in prima persona, è Giulia, la protagonista, che parla. Il giorno del suo funerale si rende conto che anche se non ha più un corpo a farle da confine è rimasta la sua voce, una voce potente per raccontare la propria storia. E così scopriamo cosa significa essere nei panni della protagonista, di chi subisce violenza”.
Quanto di te c’è in questo libro?
“La storia è completamente inventata, anche se si ispira a molti femminicidi avvenuti negli ultimi 30 anni, ma la cosa che c’è di me è l’emozione provata in lunghi anni di stalking. Ho avuto uno stalker molto aggressivo al punto che mi sono dovuta trasferire nel 1995, a 15 anni, da Biella, dove vivevo con i miei genitori, a Pontremoli, in Lunigiana, dove sono andata a vivere con i nonni. Lunghi anni di persecuzione sono terminati solo con la morte dello stalker nel 2006. L’assassino descritto nel libro si ispira alla figura realmente conosciuta nella mia vita”.
Come le origini familiari, la memoria e il passato influenzano il presente?
“Mi domandavo se parte del dolore che provavo non fosse un’eredità indesiderata, un dolore muto, tramandato generazione dopo generazione, fino a qualcuno che lo sapesse ascoltare, vedere e, chissà, sciogliere. L’ultimo frutto dell’albero, io, in quel periodo cercava solo una scappatoia al dolore, possibilmente rapida e divertente. La riflessione che faccio fare alla mia protagonista condensa le riflessioni della Psicogenealogia sull’ereditarietà del patrimonio (emotivo, storico, psicologico oltre che genetico) che di generazione in generazione ogni sistema familiare consegna in dote ai propri nuovi membri similmente agli infiniti spunti che James Hillman propone nei suoi scritti: <Tua madre, per esempio (o il defunto marito, o moglie, o amante, o un professore, un amico o amica carissimi, o una persona che conoscevi appena), se ne è andata eppure rimane come forza del carattere. L’immagine di una persona sopravvive alla sua partenza e, a volte, dopo che la persona se ne è andata, è ancora più potente. Queste immagini non sono solamente ricordi, non sono soltanto mie, soggettivamente; mostrano anche una sorprendente autonomia. Arrivano non invitate nel mezzo di una scelta, a sussurrare consigli, biasimi, critiche. Si ispirano. Ci tentano con la nostalgia. Ci mantengono legati a opinioni che avremmo potuto abbandonare da un mucchio di tempo. Ci obbligano a rimanere illogicamente attaccati a oggetti che ingombrano cassetti, armadi, perché tali oggetti agiscono su di noi come vestigia di quel carattere e sono imbevuti del suo potere duraturo. ‘No, questo non lo posso buttare via!’. E se alla fine ci decidiamo a farlo il gesto è grave, solenne, come un rito>. Sono una grande amante degli alberi genealogici, dello studio dei legami famigliari e in ogni mio romanzo la complessità della famiglia e delle relazioni è una delle protagoniste. Anche in questo libro i legami famigliari sono uno dei modi in cui perpetriamo bellezza e dolore nel mondo”.
Ritorniamo un attimo sui media per parlare anche del fenomeno della vittimizzazione secondaria. Cosa ti senti di aggiungere?
“Come ho detto rispondendo alla prima domanda, ho scelto un punto di vista in prima persona per far provare al lettore l’emozione di mettersi al posto della vittima. Nel momento in cui cerchiamo di calarci nei panni di Giulia, che sta vivendo una situazione difficile e nel momento in cui osserviamo come è la vita dal suo punto di vista con tutti i problemi famigliari, di mentalità, di pregiudizi ereditati, di amicizie, di scuola, dello stato, delle leggi, dei media che la condizionano ci rendiamo conto che le sue scelte sono più limitate di quello che pensiamo e, in automatico, alcuni giudizi cadono. Leggendo il romanzo è impossibile dire “se l’è cercata, ma come era vestita, ecc.” e altri commenti del genere. Inoltre questo non è un romanzo contro gli uomini, ci tengo a dirlo, ci sono personaggi maschili positivi, come per esempio Alessio, un potenziale fidanzato di Giulia, un ragazzo che però lei purtroppo non riesce a scegliere…”.
In chiusura, hai un messaggio per le vittime di violenza o per chi vive situazioni difficili come quelle descritte nel romanzo?
“La narrazione di Diana, la seconda voce protagonista di questo libro, si trova a fare i conti con il vuoto lasciato dalla gemella. Eppure, in un certo senso, Diana sente che chi se ne è andato non è mai scomparso del tutto, è come dietro ad una porta chiusa, non si può più vedere, toccare, ma continua ad esistere al di là del velo. Giulia e Diana rappresentano due polarità presenti in ognuno di noi: luce e ombra, vita e morte, dipendenza e indipendenza, fragilità e coraggio. Il romanzo vuole restituire speranza a chi si trova in una situazione difficile e pensa di non poterne uscire”.