Viviana Picchiarelli: Silenzi, ferite e riscatto, un ritorno potente in libreria

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di Francesca Ghezzani

La scrittrice Viviana Picchiarelli è tornata in libreria con il nuovo romanzo “Il confine dei silenzi” pubblicato con Bertoni Editore: una storia intensa e attuale, dove le battaglie personali si intrecciano a quelle sociali, tra identità negate, sfide di potere e voglia di riscatto.

Pagine nate dalla consapevolezza che la sordità non è solo assenza di suono. È il limite che gli altri ti impongono, lo sguardo che ti riduce, il confine che non hai scelto.

Viviana, questo libro ti è stato proposto dal tuo stesso editore. Scrivere “su commissione” ha rappresentato per te una sfida?

“Sì, eccome! Di solito sono io a rincorrere le storie, a farle nascere nei momenti più impensati. Stavolta, invece, è arrivata prima la proposta dell’editore, un tema forte, e poi un’idea iniziale di trama. A quel punto ho dovuto farci i conti, trovare il modo giusto per entrarci e raccontarla a modo mio, con rispetto e cura. Scrivere di sordità, di inclusione, di silenzi – imposti, cercati, subiti – non è stato affatto semplice. Ho accettato, non senza un pizzico di timore, va detto, proprio perché mi sembrava una sfida giusta: fuori dalla mia zona di comfort, ma piena di senso. È stato come scalare una collina che non avevo previsto, ma da lassù mi sono resa conto che anche le storie che non scegli possono cambiarti dentro”.

Quali sono i temi principali esplorati nel libro?

“Ce ne sono tanti, ma se dovessi riassumere direi: identità, silenzio e riscatto. La storia parla di chi non si sente riconosciuto, di chi lotta per far sentire la propria voce anche quando il mondo sembra girarsi dall’altra parte. C’è anche la politica, ma vista da dentro le persone, non dai palchi. E poi ci sono i legami familiari, quelli che ti sostengono o ti crollano addosso. È un libro pieno di ferite e di forza”.

Obbedienza e ribellione: quali personaggi incarnano meglio i due atteggiamenti a livello familiare e nel contesto di Terravecchia del Monte?

“Glenda e Clara, le due protagoniste. Glenda è la figlia “perfetta” che per anni ha fatto tutto come si deve, anche quando non le andava. Clara, invece, è quella che non si piega, che si è costruita da sola, pur restando sempre un po’ ai margini. Ma non è così semplice: anche Clara ha dovuto obbedire, a volte. E Glenda, a un certo punto, decide che è ora di cambiare. È bello vederle evolvere, fare scelte scomode, uscire dai ruoli. Come nella vita, del resto”.

Hai dichiarato di aver voluto raccontare anche i “silenzi che proteggono, che pesano, che separano”. C’è un momento nella storia in cui il silenzio diventa strumento di forza, invece che di esclusione?

“Sì, c’è un momento in cui il silenzio smette di essere mancanza e diventa margine. Non più – o meglio, non semplicemente – un vuoto da riempire, ma una linea che Clara traccia per dire: fin qui arrivate voi, da qui in poi ci sono io. Lei non cerca più di farsi capire secondo le regole degli altri, non gioca più alla traduzione simultanea della propria identità. Resta ferma, intera. E in quella fermezza il silenzio prende forma e acquista corpo, obbligando gli altri a tendersi verso di lei e non viceversa”.

Un’ultima domanda: preferisci scrivere di personaggi maschili o femminili e cosa ti risulta più facile?

“Preferisco scrivere di personaggi femminili. Le storie che racconto rientrano in quella che viene definita ‘Women’s Fiction’, un genere che mette al centro le donne, le loro relazioni, i conflitti interiori, il modo in cui affrontano le crepe della vita quotidiana. Non sono eroine, non sempre fanno la scelta giusta – ma sono vive, complesse, attraversate da dubbi, desideri, contraddizioni. Raccontarle mi viene naturale, forse perché certi nodi emotivi li porto dentro anch’io. I personaggi maschili ci sono, e spesso mi sorprendo a seguirli con curiosità, ma è innegabile che siano le figure femminili a offrirmi più spazio per dire qualcosa che sento davvero mio. Malgrado ciò, quando un personaggio – uomo o donna – riesce a spogliarsi dai ruoli e mostrarsi fragile, allora so che vale la pena ascoltarlo. L’importante, per me, è che sia autentico. Che abbia qualcosa da dire”.

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